[ Pobierz całość w formacie PDF ]

versato un bicchiere colmo di vino, e l'avevo spinta a fare un brindisi, al quale lei
aveva risposto accostando il suo bicchiere al mio senza sollevarlo, un brindisi basso
sulla tovaglia. Troppo basso, come la luna nel cielo. Potevamo vederla attraverso la
finestra dagli infissi di metallo. Stava lì con quella faccia benigna e satolla, e l'aria
intorno alla sua sfera era diafana nel buio: sembrava curiosa di noi. Ero un po' brillo,
avevo svuotato almeno tre bicchieri colmi di vino uno dopo l'altro. In quella locanda
odorosa di cibi messi da parte e di liquori scadenti, ero felice perché stavo con lei,
lontano centinaia di chilometri dalla città dove avevo vissuto come un topo. Felice
perché la nostra vita cominciava, e ogni tappa sarebbe stata superba, doveva esserlo.
E adesso avevo paura che Italia fosse triste, volevo tirarmi su per rallegrarla, perché
temevo che anch'io nel giro di poco sarei potuto diventare triste. Sentivo che
specchiarci in quella luna poteva, all'improvviso, renderci miserevoli. Bevevo perché
non volevo pensare a questo, Angela. Bevevo ed ero pieno di fiducia, perché la vita
mi avrebbe dato modo di riscattarmi, bevevo perché avremmo avuto un altro figlio, e
non le avrei tolto più nessuna gioia, l'avrei premiata fino all'ultimo giorno. La
guardavo e i miei stupidi occhi luccicavano pieni di fiducia, e poco importava se ora
lei digiunava, era solo stanca. Doveva dormire e sognare, mentre io la carezzavo al
cospetto di quella luna grassa, e se avesse avuto fame di notte, sarei sceso nella
cucina spenta a rubare qualcosa, un po' di pane, qualche fetta di soppressata. E l'avrei
guardata mangiare come un amore nella notte.
Vomitò nel piatto. Il conato la sorprese, le arrossò il viso, una vena scura le si
gonfiò sulla fronte. Prese il tovagliolo e se lo portò sulla bocca.
«Scusami.»
Le strinsi la mano ferma sul tavolo, una mano troppo calda, incollata di sudore.
«Sono io che devo chiederti scusa, ti ho costretta a cenare.»
Si era fatta bianca, i suoi occhi si erano riempiti di una strana resa. Tossì, poi si
guardò intorno, come se temesse che qualcuno si fosse accorto del suo malessere. La
sala taceva, solo il ronzio del televisore, la voce dello speaker che inseguiva i
passaggi di palla. Oltre le sue spalle, sul fondo, la porta della cucina si aprì, spinta dal
corpo della donna. Si avvicinò a noi e posò sul tavolo un vassoio di affettati. Era ben
composto, tra le fette spuntavano mazzetti lucidi di sottolio, melanzane, pomodori
secchi.
«La mia amica non si sente bene, potrebbe accompagnarci in camera?»
La donna ci scrutava perplessa e forse non si fidava più di noi.
«Ci scusi» dissi, e misi una banconota da centomila sul tavolo insieme alla mia
carta d'identità, «dopo scendo a portarle il documento della signora.»
Prese la banconota, lentamente si avviò verso il bancone da bar, aprì una scatola
di metallo e ci consegnò una chiave.
La stanza era ampia e aveva un aspetto lindo, ma odorava di chiuso. C'era un
letto di legno impiallacciato, e un armadio gemello, ancora con la plastica intorno alle
zampe. Due asciugamani, uno celeste e uno più corto color noce moscata, pendevano
accanto a un lavandino. Il copriletto era verde come la tenda, lo spostai verso il fondo
del letto. Italia si sedette, piegata su se stessa, senza mai lasciarsi il ventre.
«Hai le mestruazioni?»
«No» e si lasciò andare con le spalle sul letto.
Le sfilai le scarpe, poi l'aiutai a stendere le gambe.
Le sistemai il cuscino sotto la testa, un cuscino svuotato che si ridusse a niente,
allora presi anche quello che sarebbe spettato a me, per sollevarla un po' di più. C'era
davvero uno strano odore nella stanza, chimico, insano, forse dovuto a quel mobilio
scadente, fresco di fabbrica. Mossi la tenda, tirai su la serranda e spalancai la finestra
per lasciare che entrasse l'odore della notte che era mite, sembrava già una notte
estiva.
Sul letto Italia tremava. Chiusi la finestra e cercai una coperta. La trovai
nell'armadio, dentro uno dei cassetti, una coperta marrone, ruvida, da caserma. La
piegai in due e gliela stesi addosso. Infilai una mano sotto per cercarle il polso. I
battiti erano deboli. Non avevo la mia borsa con me, non avevo nulla, nemmeno un
termometro, mi detestai per quella negligenza.
«Ti prego, dormiamo» disse.
Mi stesi accanto a lei senza neppure togliermi le scarpe. Adesso dormiremo.
Dormiremo così, vestiti, in questa stanza brutta, e domani lei starà bene, partiremo
di buonora, con il fresco. Ci fermeremo a fare colazione in un bar, comprerò i
giornali, le lamette da barba. Il vino bevuto in fretta ristagnava nel mio corpo
disteso, mi mancava la voce di Italia, mi mancava il suo corpo, avevo il membro
ingrossato e avrei fatto volentieri l'amore. Lei dormiva già. Spensi la luce. Il suo
respiro era pesante e rumoroso, come quello di un bambino molto stanco, o di un
cane che sogna. Ma il vino non era buono, mi aveva tolto in fretta la spossatezza, e
ora mi sentivo di nuovo vigile, la bocca spessa, amara. Mi addossai a Italia, piano,
per non svegliarla. Era mia, lo sarebbe stata per sempre.
La luce lunare illuminava il suo profilo che appariva contratto, perplesso, come
se sulla soglia del sonno lei si fosse portata con sé un'incertezza. Non mi chiesi quale.
Però sorrisi nel buio, e sentii la mia pelle accartocciarsi sotto lo zigomo, contro il
lenzuolo, pensando a come mi piaceva spiarla. Ero felice, non ci si accorge mai di
esserlo, Angela, e mi chiesi perché l'assimilazione di un sentimento così benevolo ci [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]

  • zanotowane.pl
  • doc.pisz.pl
  • pdf.pisz.pl
  • zboralski.keep.pl